Benvenuti cari lettori di Talentwolf! Oggi intervistiamo gli autori di uno dei bestseller più discussi di quest'estate: "Risorse Inumane. Diario segreto di un direttore del personale".
Lo hanno definito spietato e sfacciatamente sincero, Denis Murano, nome di fantasia in arte “Dottor X” direttore HR di grandi aziende e il suo compagno di avventura David Buonaventura, founder di Colloquio Diretto, hanno deciso di rivelarci i segreti dei temuti Recruiters e i retroscena di questa professione!
Non perdetevi questa intervista e il loro nuovo libro, disponibile da pochissimi giorni su Amazon dal titolo “Selezioni Inumane: il vero mmotivo per cui ti scartano”.
Benvenuti David e Dottor X, iniziamo con lo spiegare ai nostri lettori come mai avete scelto di lavorare nel settore HR. Cosa vi ha spinto ad intraprendere la vostra professione?
DAVID – DOTT.X questo è il tuo campo, a te la parola!
DOTT. X - Da sempre mi affascinano le cose misteriose e complicate. E all’università mi sono reso conto che non c’è niente di più misterioso e complicato delle persone. Quando poi le persone vengono messe in un ambiente altrettanto complesso come quello aziendale e allora se ne vedono delle belle. Ormai sono più di 15 anni che lavoro nelle Risorse Umane e ho visto come è sempre e solo attraverso le persone che si creano storie di successo o si generano delle tragedie. E sono più di 15 anni che provo ad evitare tragedie e cerco di creare successi attraverso le persone.
Leggendo i vostri libri, mi sono chiesta più di una volta se avete mai pensato di dare il vostro contributo anche nella formazione. Se aveste la possibilità di fare da Docenti all'università in un corso di HR, cosa insegnereste per prima cosa ai vostri studenti?
DAVID – La mia attività di formazione è iniziata con Colloquio Diretto che ha lo scopo di aiutare le persone, in particolare gli Over, che cercano lavoro introducendo un rivoluzionario metodo di comunicazione che ribalta il solito: candidati ed aspetta. Sono poi passato alla formazione per gli orientatori per le politiche attive del lavoro per aiutare chi deve, a sua volta, formare. Sono poi passato a formare chi subisce mobbing e deve evitare il problema. Ammesso che ci sia un’università tanto folle da ospitare un rivoluzionario come me, insegnerei agli HR come capire meglio la comunicazione dei propri interlocutori notando quei dettagli, molte volte ignorati, che fanno riconoscere il vero professionista da chi fa solo finta di esserlo.
DOTT. X - Mi sono occupato di formazione per qualche anno durante la mia carriera. E devo ammettere che è una delle mie passioni. Ho da sempre un sogno, fare una lezione all’università. E non mi dispiacerebbe avere un futuro nella formazione. Penso che se si vuole realmente fare un cambiamento culturale in Italia bisogna partire dalla formazione post scolastica e professionalizzante. Ci sono in giro davvero troppi sciacalli e improvvisatori.
La prima cosa che proverei a far passare ai miei studenti è l’importanza del contraddittorio! Non per crescere generazioni di rompiscatole, di quelli ne abbiamo fin troppi. Ma sviluppare nelle persone un pensiero intelligentemente critico che porti loro ad approfondire le informazioni a prescindere da dove queste arrivino. E la seconda cosa che proverei a far passare è l’importanza del “dipende”. Una cosa che ho imparato è che “dipende” spesso è la risposta esatta a tante domande, perché le soluzioni magiche non esistono.
Secondo la vostra esperienza, cosa non può assolutamente mancare ad un HR/Recruiter per avere davvero successo nel suo lavoro?
DAVID – Alcune delle persone che hanno acquistato i miei corsi per la ricerca lavoro sono recruiter e HR. Sono rimasto sorpreso. Perché comprare i miei corsi, non dovrebbero essere loro i migliori esperti su come ci muove per trovare lavoro? Li ho chiamati e ho chiesto il motivo. La risposta mi ha lasciato senza fiato: PROPRIO perché conoscevano come funziona (male) l’attuale sistema di ricerca e selezione sapevano che avrebbero dovuto usare qualcosa di più moderno ed efficace. Questo gli ha permesso non solo di trovare un nuovo lavoro ma, a loro dire, diventare persone e professionisti migliori. Essere “dall’altra parte” e mettere in discussione il proprio modo di proporsi, aiuta molto a diventare poi chi la selezione la opera.
DOTT. X - Saper coniugare tecnica e istinto. Non si può fare questo lavoro se non si ha una buona preparazione tecnica sui diversi stili di colloquio, i bias percettivi e gli strumenti che si possono utilizzare. Ma non basta, bisogna poi coniugare queste competenze con la capacità di entrare in contatto con le persone. Il processo di selezione non è una valutazione ma è prima di tutto l’incontro tra due persone che hanno uno scopo. Capire se si ha di fronte la persona giusta per un determinato ambiente di lavoro in un determinato momento storico.
In che modo secondo voi il personal branding può giovare sia ai Recruiters che ai candidati?
DAVID – Su un articolo del Sole24 ore tempo fa lessi che è ormai obbligatorio ai nostri tempi avere tre lavori. Uno di questi è rappresentato dall’attività relativa al personal branding. Si… è un lavoro in quanto impegna tempo e risorse in maniera continua. Oggi è normale sia per un candidato sia per un recruiter visitare il profilo LinkedIn della controparte. Si vuol sapere con chi si ha a che fare, nel bene e nel male. Essere un professionista e non impegnarsi nell’attività di personal branding è come laurearsi in una materia in continua evoluzione e smettere di tenersi aggiornato. Un suicidio.
DOTT. X - Ormai è fondamentale. Ciascuno di noi ha una sola reputazione, una volta persa si rischia di rimanere fuori dai giochi. Scrivere un commento su un social è come scendere in piazza e urlare. Con la differenza che sui Social quello che si scrive rimane. Le persone che sanno utilizzare i social a proprio vantaggio e che creano una buona vetrina professionale di sè stessi, saranno sicuramente avvantaggiati nel cercare e trovare lavoro. Chi invece usa i social con leggerezza inevitabilmente ne diventa vittima.
Per questo ormai la maggior parte dei Recruiter cerca informazioni sui candidati sui social e su google prima di farli progredire nel processo di selezione. La rete da tantissime informazioni. Provate a googlare il vostro nome e cognome e date un occhio. Io lo faccio sempre.
A quali pregiudizi sono soggetti i candidati nella ricerca del lavoro?
DAVID – L’età. Ho creato Colloquio Diretto dopo essere stato oggetto di una inumana discriminazione sull’età da parte di una Società di Selezione. Dopo essere stato scartato ho scoperto chi fosse il loro cliente, mi sono proposto direttamente ed ho ottenuto il posto. Quell’assurdo limite era solo nella testa del recruiter.
È un paradosso. Se sai “tanto” allora sei “troppo”. Come se l’esperienza fosse un problema e non una risorsa. La cosa più grave è che questo pregiudizio danneggia tutti: il candidato di valore che non trova il lavoro che merita, l’azienda che non può avvalersi del migliore candidato, il recruiter che fornisce un pessimo servizio, viola la legge e mette in cattiva luce una categoria professionale importante e strategica.
DOTT. X – mille e più. Età, genere, distanza, apparenza fisica, buchi sul CV, e chi più ne ha più ne metta. Il problema è che molti selezionatori sono molto giudicanti e spesso lo sono su degli schemi mentali sbagliati.
50 anni? Troppo costoso e magari pretende troppo
Donna? Eh, ma prima o poi rimarrà incinta.
Troppo Distante? Non si sposterà mai. E così via. Tutte proiezioni che si fanno sul candidato prima ancora che apra bocca.
Il problema a pensare in questo modo è che si toglie alle persone la possibilità di dimostrare il proprio valore. Troppo spesso si viene esclusi dai giochi prima ancora di scendere in campo.
La discriminazione in fase di selezione è la cosa più stupida, odiosa e controproducente che ci possa essere. Il problema è che spesso è il cliente che spinge il recruiter verso queste discriminazioni. E allora li si vede la differenza tra il professionista e l’accattone. Il professionista porta il cliente a capire che così perderà l’opportunità di trovare la persona giusta. Per l’accattone…l’importante è fatturare.
Una volta in una selezione ho colloquiato una donna di 29 anni al quarto mese di gravidanza. Candidata fantastico: preparata, brillante e motivata. Ma sapevo bene che nessun recruiter l’avrebbe mai presentata, invece io ho voluto osare e l’ho inserita nella rosa dei candidati come outsider. L’azienda ci ha messo giorni per decidere. Mille dubbi e perplessità. Alla mia domanda “ma se non fosse incinta l’avreste assunta” la risposta è stata “Certamente è una spanna sopra gli altri candidati”, “E allora costa state a pensare?”.
Alla fine hanno scelto lei ed è stata la loro fortuna nei successivi 3 anni.
Dottor X, durante la tua carriera sarai sicuramente rimasto soddisfatto di determinati candidati da te scelti (oltre Alice, che hai espressamente citato nel tuo libro). Pensi che abbiano avuto più peso nel tuo processo decisionale le tue competenze tecniche o il tuo istinto?
DOTT. X - Hmmm secondo me è tutta questione di culo.
Come scrisse Arthur Bloch: “nessuna pianificazione, per quanto attenta, potrà mai sostituire una bella botta di culo” A volte si sottovaluta il ruolo della fortuna.
A parte gli scherzi, c’è molta differenza tra selezionare qualcuno da far lavorare al proprio fianco o per un collega o un cliente. Io trovo drammaticamente difficile selezionare qualcuno da far lavorare con me. E molte volte ho sbagliato alla grande.
Nella scelta dei propri collaboratori oltre all’istinto e alle competenze serve anche il Coraggio.
Il coraggio di analizzare sè stessi, i propri limiti e le proprie caratteristiche e scegliere qualcuno che sia complementare e più bravo dove sappiamo avere dei punti deboli. Per esempio io non sono famoso per la mia precisione, per questo adoro circondarmi di persone scrupolose e ben organizzate. Non sono nemmeno tanto diplomatico, per questo meglio scegliere persone con un approccio relazionale più soft. Altrimenti, invece che un ufficio Risorse Umane, creiamo un girone dell'inferno.
Chi vi ha insegnato di più: il cattivo manager o il buon manager? Esistono davvero queste due categorie?
DAVID – Le persone da cui ho imparato di più sono i manager non all’altezza del loro ruolo. Ho analizzato i loro comportamenti, costruito e adottato modelli di comportamento differenti. Un conto è seguire la teoria del “manager perfetto” appresa dai libri e un conto sentire sulla tua pelle gli effetti di chi non ha la capacità di essere un manager e ti fa lavorare e vivere male. il cattivo esempio altrui aiuta. Eccome.
DOTT. X - E come se esistono. A parte i vari manualetti del cacchio che pontificano sulla differenza tra Boss e Leader, Manager o capo , ecc. Io penso che la differenza tra le due categorie sia semplice e lampante:
Il buon manager forma e gestisce i collaboratori con l’obiettivo di creare manager che possono rubargli il posto.
Il cattivo manager gestisce e limita i collaboratori con l’obiettivo di farli rimanere dove sono e non correre rischi di perdere il posto.
Dietro c’è un mondo di differenze.